Biografia

Cenni biografici (di Roberto Cadonici. Estratto da M. BOLOGNINI, Fare cinema, Pistoia, Via del Vento, 2012)

Mauro nasce a Pistoia il 28 giugno 1922 nella casa di famiglia in via Dalmazia. Il padre, Alduino, è un commerciante di bestiame, con un’attività consolidata e un buon patrimonio. La madre, Natalina Giovannini, viene invece dalla vicina Montecatini. “Mia madre è stata importante, era la saggezza in persona; io non ho preso molto della sua saggezza, ma lei lo era per istinto. Grande saggezza: quando c’erano dei problemi difficili, nella casa, o problemi anche miei, lei aveva la parola giusta nel momento giusto”1.
E’ il secondo di tre fratelli: Marcello era nato un anno prima, Manolo nasce circa tre anni dopo, nel 1925. Marcello, morto recentemente, nel 2010, è sempre rimasto a Pistoia, dove ha svolto la sua attività e abitato la casa di famiglia. Manolo seguirà invece ben presto a Roma le orme del fratello, impegnato anch’egli nel mondo del cinema.
La fanciullezza trascorre relativamente tranquilla; è il periodo tra le due guerre e le buone condizioni della famiglia consentono di vivere senza particolari problemi.

“Io ho un’origine contadina … poi sono toscano. Tutto il cibo era eccellente nella mia casa (non ho sofferto la fame) però non si sprecava niente. Non esistevano i frigidaire, pieni di roba che si buttava. C’era l’economia delle cose che io mi porto dietro. Ricordo che se noi si buttava una cosa – che so, un pezzo di pane – mia madre ce lo faceva raccogliere. ‘Quello lo mangerai domani’ – diceva”2.
Tutti e tre i fratelli ricevono una discreta educazione scolastica. Marcello fa le scuole commerciali (e farà il commercialista nella sua città per tutta la vita), mentre Manolo si diploma al Tecnico di Corso Gramsci. La carriera scolastica di Mauro è poco lineare e non particolarmente brillante. Si sa che frequenta Ginnasio e Liceo, il Forteguerri, dove tra l’altro avrà modo di conoscere Silvano Fedi, sorvegliato e arrestato dal regime già negli anni di scuola, nel 1939. In prima liceo, per non avere “riparato” durante l’estate le insufficienze di Latino e Greco, viene respinto. E’ certa la conoscenza del giovane martire pistoiese, per quanto il rapporto di allora sia in parte mitizzato con il passare del tempo, visto che Silvano era di due anni più anziano di Mauro. “1939. Avevo sedici anni, sogni confusi, idee confuse. Frequentavo il liceo quando, a metà mattinata, uscivamo di classe per il breve intervallo, immancabilmente raggiungevo gli amici di un’altra sezione, giù in fondo al corridoio, lontano dalle grida.
Silvano Fedi era là. Affacciato ad una finestra, che ci aspettava.
Gaio, sportivo, scherzoso, in qualche modo che ancora non posso definire era diverso da noi. Parlava in modo diverso. Di cose per me insolite, insolite proprio nel nostro linguaggio. Non in tono pesante, predicatorio, piuttosto con leggerezza, con una specie di impeto affettuoso e strafottente”3. E’ noto che il compagno di Liceo darà poi vita ad una formazione partigiana e troverà la morte in un agguato per mano dei tedeschi, nel 1944.

Pistoia è il luogo da cui fuggire, la cappa della provincia è avvertita fino da giovane ed egli non tarderà a liberarsene, prima con gli anni universitari a Firenze, poi col definitivo trasferimento nella capitale. Sono tuttavia gli anni della formazione umana e culturale, più importanti di quanto lui stesso voglia ammettere: gli anni delle esperienze che restano tracciate nella personalità.
“Quando io ero ragazzo si andava al cinema ad occhi bendati. Cosi, tanto per andare al cinema. Non c'era la pretesa di avere ogni volta il capolavoro. La meraviglia cominciava allo spegnersi della luce, appena si illuminava lo schermo. Perché il cinema meravigliava, e affascinava”4.
La stessa riflessione vale per le prime esperienze a teatro, per l’impatto con l’opera lirica, o per gli anni di guerra, chiusi con una breve parentesi militare, troncata sul nascere dalla firma dell’armistizio. Del resto il rapporto con la città d’origine non è solo improntato a negatività: ogni tanto emerge anche il gusto dolce-amaro di quegli anni fatati, come in occasione dell’unico film che contiene spunti autobiografici, Giovani mariti: “E’ un film nato dall’esperienza personale. Ci sono dentro i miei amici, ci sono anch’io. E’ un pezzo della mia vita, accuratamente trasposto e camuffato. C’è un momento in cui si diventa veramente uomini, si sosta per un attimo sui ricordi per bruciarli in una nuova consapevolezza. (…) La storia originariamente si svolgeva a Pistoia, la mia città. (…) Pistoia è una città vivace, con una gioventù un po’ allegra e ingenuamente ribalda (…)5” . Come noto, proprio per non farsi coinvolgere troppo emotivamente, il film fu invece girato nel 1958 nella vicina Lucca.

Sono anche gli anni dell’Università. Mauro frequenta i corsi di Architettura a Firenze, ma presto diventa arida per lui anche l’aria del capoluogo toscano. Finita la guerra, prevale in tutti la voglia di ricominciare, di costruire, di sognare. Parte con Franco Zeffirelli e Piero Tosi, compagni di studi all’Università, alla volta di Roma. Troveranno alloggio alla pensione Amerigo di piazza del Popolo, ma lì troveranno anche stimoli diversi da quelli che li hanno condotti fin là. Abbandonati gli studi, troveranno tutti e tre la loro diversa strada nel mondo dello spettacolo.
Gli anni tra il 1948 e il 1953 sono quelli del vero e proprio apprendistato. Prima frequenta come uditore le lezioni al Centro Sperimentale di Cinematografia, poi fa l’aiuto regista di Luigi Zampa, come volontario senza compensi, almeno inizialmente. Nel 1952 ha l’opportunità, grazie ad un accordo di coproduzione, di fare l’aiuto regista in Francia, prima con Jean Delannoy e poi con Yves Allegret. Sarà l’ultima importante esperienza formativa prima del passaggio alle regia, che avviene nel 1953 con Ci vediamo in galleria. Nel film d’esordio, che vede come protagonisti Carlo Dapporto e Nilla Pizzi, incrocia subito due nomi destinati a fare la storia del cinema italiano: Sofia Loren, alla sua seconda apparizione sul grande schermo, e Alberto Sordi, già più noto, tanto che nel film interpreta sé stesso. Da lì in avanti la sua carriera procede con un susseguirsi di successi, o anche di insuccessi, ma sempre sulla cresta dell’onda, divenendo presto un regista di rango internazionale, uno degli esponenti di punta del cinema italiano negli anni in cui la nostra produzione cinematografica faceva scuola nel mondo. Con Gli innamorati, il suo terzo film, approda già al Festival di Cannes, dove tornerà anche in seguito con Giovani mariti, con La viaccia e poi con L’eredità Ferramonti. In tutte queste apparizioni i film di Bolognini incassano un premio: come migliore sceneggiatura o migliore selezione, quando non è il premio all’interpretazione come nel caso di Ottavia Piccolo e di Dominique Sanda.

Quelli tra il 1957 e il 1960 sono invece gli anni decisivi non solo per l’affermazione delle qualità registiche di Bolognini, ma anche perché sono contraddistinti dalla collaborazione con Pier Paolo Pasolini, conosciuto a metà degli anni ’50 in casa di Toti Scialoja. Pasolini collabora per il soggetto, la sceneggiatura o i dialoghi a cinque film di Mauro: Marisa la civetta, Giovani mariti, La notte brava, Il bell’Antonio e La giornata balorda. In particolare il terzo di questi film è la trasposizione sullo schermo del suo romanzo Ragazzi di vita, segno di una contiguità non banale tra i due, al di là delle evidenti differenze di stile, di cui entrambi erano perfettamente consapevoli. Dal punto di vista dei risultati esteriori è però Il bell’Antonio il prodotto più proficuo della collaborazione. La pellicola, che è la trasposizione del romanzo di Vitaliano Brancati, vince premi a ripetizione nei diversi Festival cui partecipa: a Locarno, a Lima, ad Acapulco e infine al Festival del cinema italiano in Brasile. Per lo stesso film Bolognini ottiene però un riconoscimento ancora superiore, e sono proprio le parole di Pasolini, che aveva steso la sceneggiatura ma non aveva avuto nessun ruolo durante le riprese: “Alla fine [della proiezione] per poco non abbracciavo Bolognini. (…) Quello che stupisce nel film – specie nella prima parte – è la sua essenzialità, quasi grandiosa. Bolognini ha rinunciato qui a ogni eleganza facile, scorrevole e vivace. Dopo le prove eleganti ma un po' superficiali dei Giovani mariti e La notte brava (il cui ambiente sottoproletario non era il suo, se non indirettamente, se non implicante un amore un po' compiaciuto e abnorme), nel Bell'Antonio Bolognini si rivela finalmente un regista di prim'ordine”6.

Più in generale tutti i primi anni romani sono pieni di incontri, di consuetudini che arricchiscono: non solo con i sodali Tosi e Zeffirelli e con Pasolini, per il quale Bolognini stravede, tanto da aiutarlo significativamente all’inizio della sua carriera registica; ma poi Moravia, la Morante, Parise, Laura Betti e tanti altri. Dopo la fase “scapigliata” dei primi anni romani, Mauro ha trovato sistemazioni abitative più consone al suo nuovo rango. Lasciate alle spalle le pensioncine degli esordi, trova una prima volta sistemazione in Piazza di Spagna. Poi, appena ultimate le riprese di Senilità (1961), si trasferisce in via San Teodoro, in un superattico settecentesco con vista sul Foro romano. E’ una sistemazione prestigiosissima, che gli è stata suggerita da Renato Salvatori, ma mai particolarmente amata, tanto che più avanti farà definitivamente ritorno in Piazza di Spagna, in quella che sarà, di fatto, l’abitazione della sua vita, o perlomeno dei suoi ultimi vent’anni (dal 1981 fino alla morte).

Quando lavora a Roma, la bellissima casa (come quella di Castel Gandolfo) è sempre piena di gente: i suoi attori, i suoi collaboratori, gli amici sono spesso da lui. In questo modo, probabilmente, cerca di sfuggire alla solitudine e dà pieno sfogo alla passione per la cucina. Infatti Mauro era un amante della buona tavola ed un abilissimo cuoco; non a caso ha lasciato un suo personale libro di ricette, ancora custodito dal fratello Manolo.
Il suo lavoro, ormai apprezzato nel mondo, ottiene riconoscimenti importanti anche in Italia. Infatti colleziona David, nastri e vele; viene invitato naturalmente ai Festival, ma più spesso fuori dai confini. Rimane sempre una punta di scetticismo nella critica, e talvolta anche da parte del pubblico. A Venezia, presentato fuori concorso, La donna è una cosa meravigliosa (1964) viene sonoramente fischiato. Spesso, come in questo caso, lo sguardo del regista pistoiese è molto più avanti del proprio tempo, stenta a farsi largo nell’opinione corrente. L’episodio dell’amore tra due nani è un capolavoro di demistificazioni, ma urta sensibilità e pudori, pagandone lo scotto. Incomprensioni analoghe sono frequenti nella ricca filmografia di Mauro; dove forse sono più evidenti che altrove sarà ne La corruzione (1963) e ne L’assoluto naturale (1969), dal testo omonimo di Goffredo Parise.
Le tematiche spesso “spinte” di cui si serve per il proprio lavoro lo portano a incappare in frequenti guai con la censura; tagli e divieti diventano una ricca collezione, che accompagna di fatto tutta la sua produzione filmica.
Continua la sua fortuna soprattutto all’estero. Proprio con Senilità si aggiudica il 1° premio al Festival di San Sebastian, nel 1962; nel 1964 e nel 1966 otterrà nuovi riconoscimenti dallo stesso Festival, prima con La corruzione, poi con Madamigella di Maupin. Inutile dire del suo rapporto con gli attori, sia italiani che stranieri: sono davvero rari quelli che non hanno lavorato con lui tra i nomi di spicco. Basterà allora ricordare le quattro presenze di Claudia Cardinale all’interno della sua filmografia, e altrettante sono quelle di Alberto Sordi.

Nel marzo 1964 c’è l’esordio nella regia d’opera: mette in scena a Palermo, al Teatro Massimo, l’Ernani di Giuseppe Verdi, con un tenore della notorietà di Mario del Monaco. E’ l’inizio di un percorso lungo e ricco di soddisfazioni, che corre parallelo a quello del cinema e mai in subordine, né per qualità né per quantità. Luca Scarlini, nella sua preziosa ricostruzione del “palcoscenico del desiderio”, sintetizza in questo modo i primi anni della sua attività lirica: “Dopo un debutto un po’ in sordina a Palermo con Ernani, si segnalò poi nel 1964 come regista di melodramma con Tosca all’Opera di Roma, chiamato da Massimo Bogianckino, sovrintendente e per lungo tempo suo convinto sostenitore. (…) Tosca e Adriana Lecouvreur saranno due grandi successi di Bolognini regista d’opera e non per caso tutti i critici confermeranno la sua maestria nel ricostruire i riferimenti d’epoca (…)”7.
Da lì in avanti il teatro d’opera sarà un perno su cui si avvita buonissima parte del suo lavoro, in particolare negli anni ’70 e ’80, ma anche successivamente. Un lavoro che porta il regista a confrontarsi con tutta la parte più significativa del repertorio classico del melodramma, da Verdi, a Puccini, da Leoncavallo a Bizet, dirigendo le maggiori interpreti femminili (Kabaivanska, Scotto, Caballé, …) e maschili (da Pavarotti a Cappuccilli). Non è da meno l’elenco dei direttori d’orchestra, sempre di primo piano, da Muti fino a Daniel Oren; e lo stesso si potrebbe dire per gli scenografi, i costumisti e i coreografi. “Rimane casomai da aggiungere un particolare ricorrente anche nel cinema: Bolognini lavora con tutti i più grandi, ma molte volte lo fa quando grandi ancora non lo sono diventati. E’ lui che spesso opera da vero e proprio talent scout, o comunque da operatore di successo che non disdegna di puntare sul talento più che sul nome, agevolando in tal modo il lancio di giovani che hanno l’opportunità di presentarsi sul palcoscenico che conta. Per fare un paio di esempi nel campo della lirica, non esitò ad affidare il delicato compito di progettare le scene ad un giovanissimo Pier Luigi Samaritani per il Manfred (e successivamente per La vestale e il Mosé), e ad un insospettato Mario Martone per La vedova allegra del San Carlo”8.

Con una mole di lavoro del genere, imponente da tutti i punti di vista (più di quaranta i film, una quarantina anche gli allestimenti lirici), sembra quasi impossibile che Bolognini abbia trovato il tempo per altre cose: ha sicuramente sacrificato la vita privata, realizzandosi pressoché interamente nel lavoro, ma è riuscito a gestire esperienze, più ridotte ma non occasionali, perfino nel settore del teatro di prosa. Anche qui i riferimenti provengono dal repertorio classico. Tra gli stranieri Shakespeare, Pinter, O’Neill; ma anche la Filomena Marturano di Eduardo e soprattutto Pirandello, con una trilogia messa in scena tra la fine degli anni ’80 e la prima metà del decennio successivo: I giganti della montagna, Il berretto a sonagli e Così è (se vi pare). E naturalmente con allestimenti talvolta collocati in luoghi magici, come nel caso della Valle dei Templi di Agrigento; e con interpreti di primo piano, come Paola Borboni, Irene Papas, Alida Valli. Anche le regie teatrali, come del resto quelle liriche, sono sopravvissute all’autore; ancora oggi i suoi allestimenti tornano di frequente di fronte al pubblico in teatri prestigiosi.
Numerosi anche altri riconoscimenti. Nel 1971 vince il Premio Spoleto “Per il cinema italiano”: nel 1975 quello “Angelo Rizzoli”, assegnato direttamente con il voto del pubblico. Nel 1985 gli viene assegnato, per la lirica, il Premio Arena Sferisterio di Macerata. Negli anni Settanta e Ottanta gli vengono dedicate significative rassegne all’estero. Spesso sono proprio gli Istituti italiani di Cultura a promuovere queste iniziative, individuando nel regista un’eccellenza tra quanto viene prodotto nel nostro paese. Tra queste si ricordano gli appuntamenti di Nantes, di Bruxelles, di Atene, di Lima e nella ex Jugoslavia.
Nel 1983 gira il documentario Giorni di Pistoia, commissionato due anni prima dalla locale Cassa di Risparmio, che aveva voluto festeggiare anche così i 150 anni della sua storia. E’ forse la data del suo riavvicinamento alla citta natale, di una sorta di riappropriazione di spazi un tempo vissuti con sopportazione, tanto da dire: “i ricordi sono quelli di una città di provincia da cui si vuol fuggire. La mia città è una città molto quieta. Io ho dei ricordi direi malinconici, non ho dei ricordi allegri”9. Incontrare di nuovo questa città malinconica, che non considerava più sua, ma dei genitori, di qualche amico, riserva delle sorprese che avrà modo di sottolineare più volte, come con queste parole generose: “(…) Pistoia è stata sorprendente! Una scoperta, un premio. Mi è come arrivata addosso di sorpresa, mi ha preso di contropiede lasciandomi senza fiato. Avevo vissuto qui senza capire la bellezza di questa città, oggi mi è sembrata chiara, indiscutibile”10.
Gli spazi recuperati (altrove parla di “ingiustizia” per l’assenza di Piazza del Duomo dalle piazze di De Chirico) fanno recuperare anche i rapporti, la dimensione amicale, il desiderio di lasciarsi coinvolgere ancora. Già nel 1967 era stato insignito del premio “Cino”, il più prestigioso della città.
La parabola propriamente creativa, dopo i primi tre decenni di attività, può considerarsi conclusa. In realtà Mauro continua a lavorare fino a quando la grave malattia che lo porterà alla morte non lo costringe a letto, cioè fino alla metà degli anni Novanta. Sono ancora numerose, e talvolta di grande respiro, le imprese che porta avanti nel mondo dello spettacolo, sia nel cinema che in teatro: basterebbe pensare alla preparazione di Aida a Giza, alle Piramidi, nel 1987, oppure alla produzione di La famiglia Ricordi per la Rai, quattro puntate che vanno in onda a inizio del 1995; e sono solo due dei molti esempi che si potrebbero fare. E’ chiaro tuttavia che il meglio di sé l’ha già dato nella stagione migliore del cinema italiano, che si è chiusa ormai da un paio di decenni. Anche nella fase che si potrebbe definire di declino, il prestigio che si è guadagnato, unito alla grande perizia e all’indiscutibile sensibilità, gli consente di produrre lavori, in tutti e tre i suoi campi d’azione, tutt’altro che disprezzabili. A interrompere il percorso interviene la malattia, che lo porterà a spegnersi progressivamente, chiudendo i suoi giorni il 14 maggio 2001. Gli ultimi eventi della vita sono malinconiche constatazioni che è diventato protagonista ormai solo passivo. Nel maggio 1994 la Terza Università di Roma gli aveva conferito il Diploma Accademico ad honorem. Una domenica sera, invece, quella del 18 ottobre 1998, piazza di Spagna diventa in suo onore un cinema all’aperto, che ospita la proiezione di L’eredità Ferramonti. Ha organizzato la serata Paolo Luciani con un gruppo di amici del regista, che assiste da casa, immobilizzato, grazie ad una telecamera che gli permette di seguire quello che succede in piazza. Sono presenti, tra gli altri, l’assessore Gianni Borgna, Ettore Scola, Mario Martone e Laura Betti. E’ una sorta di ringraziamento della città per tutto quello che Bolognini ha rappresentato, portando il cinema italiano nel mondo; e insieme la certificazione che quella stagione è ormai conclusa.
Non può non colpire che in chiunque l’abbia conosciuto ricorra l’affetto per la persona, l’ammirazione per la competenza e la riconoscenza per l’artista, Basti per tutti la testimonianza di Mario Martone: “Le conversazioni nella sua casa a piazza di Spagna, la sua allegria, la sua curiosità, la sua intelligenza: vedere Mauro era una festa. Quando era ormai molto malato, gli portai a vedere Teatro di guerra. Intubato com’era, non parlava più con la voce, ma con gli occhi sì, e questo dava alla visita un tono che non era triste. Al termine della visione si fece dare penna e carta e mi scrisse: ci sei tu in ogni personaggio, la cosa più bella che mi sia stata detta su un mio film da chiunque. Raramente ho conosciuto una persona così capace di attenzione e di relazione con gli altri. Mauro era un uomo speciale che capiva tutto”11.
Nell’anno della morte la città di Pistoia ha istituito un Centro Culturale a lui intitolato, con il compito di curare la documentazione del suo lavoro e di mantenere vivo il ricordo della sua opera. I soci del Centro sono il Comune e la Provincia di Pistoia, la Brigata del Leoncino e la Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia.


1 Sottovoce. Mauro Bolognini, intervista di Gigi Marzullo, cit.
2 I ‘Ricordi’ di Mauro Bolognini, intervista di Isabella Franchi, cit.
3 Trattamento di Tatina Demby riportato in BERENICE, Bolognini. Percorsi della memoria, cit.
4 M. BOLOGNINI, Film di qualità senza truffare il pubblico, cit.
5 Intervista a Mauro Bolognini, a cura di Tullio Kezic, in «Settimo giorno», n. 59, 1959.
6 P. P. PASOLINI, Confessioni d’uno sceneggiatore, in «il Reporter», anno 2, n. 6, 9 febbraio 1960.
7 Il palcoscenico del desiderio. Mauro Bolognini regista d’opera, a cura di Luca Scarlini, Pistoia, Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia S.p.A., Centro Mauro Bolognini, 2010.
8 R. CADONICI, Il palcoscenico del desiderio, Pistoia, Centro Mauro Bolognini, 2010 (libretto di presentazione della IV edizione del Film Festival dedicato a Bolognini).
9 D. BAGLIVO, Mauro Bolognini regista per caso, cit.
10 Giorni di Pistoia, fascicolo illustrativo stampato in occasione dell’uscita dell’omonimo documentario, s. l. e d., ma Pistoia, Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, 1983.
10 Testimonianza riportata in Il palcoscenico del desiderio. Mauro Bolognini regista d’opera, cit.